giovedì 29 dicembre 2011

Vivere serenamente con Compiz, Ubuntu Oneiric e Nvidia

Scrivo questo hint nella speranza di salvare la vita a milioni di persone e dopo aver ravvisato, nella Rete, la totale assenza di soluzioni ad un fastidioso problema che attanagliava la mia macchina da quando ho arditamente upgradato ad Ubuntu 11.10 (aka Gattopardo Onirico).
Da alcuni giorni sentivo la ventola del processore girare vorticosamente, a circa 3000 RPM contro gli usuali 2000 RPM (+50%); mi sono quindi subito accorto che il processore scalava alla massima frequenza, anche in momenti di apparente inattività. Questo produceva ovviamente maggiore rumorosità, maggiore usura meccanica, maggior consumo energetico a discapito dell'amato ambiente e, ovviamente, un sensibile calo prestazionale.
Inoltre non si potevano non notare alcuni glitches grafici che rendevo in alcuni casi la Dash di Unity inutilizzabile.

Conoscendo i miei polli, mi è bastato un htop per avere conferma che il colpevole era il processo compiz, il quale occupava costantemente il 98% della CPU. Poiché sul portatile, corredato da analoga configurazione software, il problema non si verificava, ho subito (giustamente) accusato i driver grafici Nvidia che, anche dopo l'aggiornamento, persistevano nella criticità.
Utilizzare il CPU-scaling per ridurre la frequenza del processore non poteva essere la soluzione, per l'ovvia necessità di potenza di calcolo in determinate situazioni (es. video HD); né tantomeno si poteva regredire alla versione non accelerata del Desktop Environment (Ubuntu 2D), per una questione di orgoglio (e di funzionalità).
Mi sono allora ricordato che il compositing di Compiz passa attraverso le librerie OpenGL, quindi è bastato settarne i relativi parametri.

Ecco quindi la soluzione, semplice ed efficace:
  • da terminale apri nvidia-settings (se necessario con privilegi di root)
  • apri la scheda OpenGL settings
  • abilita il Sync to Vblank
La tua vita è già cambiata in meglio!


marco brandolini

lunedì 26 dicembre 2011

Agire, oggi.

That we would do
We should do when we would; for this 'would' changes
And hath abatements and delays as many
As there are tongues, are hands, are accidents;
And then this 'should' is like a spendthrift sigh.

Quel che vorremmo fare
dovremmo farlo mentre lo vogliamo; perché questo 'vogliamo' muta
ed ha smorzature e rimandi, per quante
sono le lingue e le mani e gli eventi,
e quel 'dovremmo', allora, è come il sospiro prodigo che alleviando fa male.

(W. Shakespeare, Hamlet, Act IV, Scene VII)

domenica 11 dicembre 2011

Etica, Politica, Amore e Sacrifici: una riflessione


articolo pubblicato su Lo Spiffero

Lo scorso 27 novembre si è tenuto, presso la Fabbrica delle E di Torino, un appassionante dibattito organizzato da Sinistra Ecologia Libertà sul tema della Conversione: del modello di sviluppo, del rapporto dell'uomo con l'ambiente, sulla democrazia e sul ruolo di una nuova Etica del "bene comune" come filo rosso che lega insieme tutti questi aspetti nella ricerca  di una vita migliore.
Sulla politica come Missione, vissuta con la passione di una "religione civile", abbiamo discusso, riflettuto, ragionato con intensità, recuperando anche quella dimensione "spirituale" che attraversa il senso del nostro agire ed orienta la direzione del rapporto con la realtà che ci circonda, fatta di affetti, di luoghi condivisi, di ambiente, di lavoro e di tutte le realtà sociali di cui, a vario titolo, facciamo parte.
Ricordando queste riflessioni, sono rimasto colpito da un bellissimo articolo (a partire dal titolo) scritto da Enzo Bianchi e pubblicato su La Stampa di oggi, di cui condivido appieno lo spirito.
Enzo Bianchi è un intellettuale proveniente dal mondo cattolico (o più propriamente cristiano), conduce un'esistenza monastica e dedicata alla riflessione, al pensiero, alla scrittura.
Pur provenendo da un mondo diametralmente opposto al mio, per formazione, per cultura, per sensibilità e per stile di vita, credo che ci abbia offerto una splendida analisi sul nostro tempo e sul modo di superare la crisi. Un'analisi lucida, sincera, profonda, intensa ma anche dura, critica; un pensiero che però allo stesso tempo apre uno spiraglio di speranza. 
Credo che ognuno di noi abbia la necessità di aprirsi agli altri, di capire ciò che è diverso e, quando ritenuto giusto, farlo nostro, lasciandoci aprire coraggiosamente ad una contaminazione che sia sinonimo di arricchimento reciproco. Per ricostruire un Paese civile, che recuperi la propria dignità e l'orgoglio dopo il quindicennio buio del berlusconismo, è necessario che ognuno di noi abbia la capacità di superare gli steccati artificiali che sin dal dopoguerra ci siamo costruiti; dobbiamo toglierci di dosso quelle etichette che ci rendono "diversi" e reiniziare a tessere, al contrario, un nuovo senso comune. 
È per questo quindi che i "sacrifici" che verranno, saranno accettabili solamente se fatti in nome dell'EQUITÀ, partendo quindi da chi non li ha mai fatti o non li sta facendo: evasori, trafficanti di capitali, grandi proprietari, pensionati d'oro, politici super-stipendiati, corporazioni e, non ultima, proprio quella Chiesa-Istituzione che gode di privilegi non più giustificabili e che farebbe un grandissimo gesto spirituale se accettasse di affrontare, anche materialmente, una parte di quegli sforzi richiesti per uscire dalla crisi. 
Solo così i sacrifici potranno considerarsi un atto d'Amore, dello stesso Amore per la nostra Terra che nutriamo per la persona della nostra Vita.

marco brandolini




qui di seguito l'articolo integrale di Enzo Bianchi. (grassetti e sottolineature mie)


Da anni, su queste colonne mi è parso doveroso e responsabile denunciare l’imbarbarimento e la crisi verso la quale andava la nostra società, dapprima a piccoli, poi a grandi passi. Nel frattempo è sopraggiunta la «crisi» economica - prima sottovalutata, poi tenuta nascosta o negata, infine esplosa in tutta la sua pesantezza - che però si è scoperta essere anche crisi etica, culturale. Il salmo 49, con la sua sapienza accumulata nei secoli, sottolinea come «l’uomo (o la donna, ndR) nel benessere non capisce, è come un animale...».

Solo ora ci stiamo incamminando verso la presa di coscienza che non è più possibile proseguire sulla strada percorsa nell’ultimo ventennio, che la mancanza di eguaglianza e di giustizia rende la nostra vita - che resta sempre «vita comune», non foss’altro perché vissuta su una stessa terra - più difficile, meno sicura, più conflittuale, più barbara. Ci stiamo rendendo conto che il vivere con il mito idolatrico del «tutto e subito», del «tutto ciò che è tecnicamente possibile va fatto» non ci garantisce un futuro buono, che il pensare solo all’oggi, solo a noi stessi come individui impoverisce la terra e fa aumentare il deserto, ci rende incapaci di lasciare alle nuove generazioni una «eredità» nel vero e nobile senso del termine.

Tuttavia oggi ci sembra di poter dire con convinzione, anche se senza alzare la voce, che si intravedono segni di speranza. Una speranza sostenuta da nuovi governanti che danno segni di voler essere «politici» nel vero senso della parola: uomini e donne al servizio della polis, della società con lo stile di chi, consapevole della sua responsabilità, non ostenta, non vuole apparire e cerca di parlare con parresia, con franchezza e sincerità, perseguendo il bene comune.

È in questo contesto che, nella comunicazione viva e fatta con tutta la sua persona da parte del ministro del Lavoro, abbiamo colto la verità della parola «sacrificio»: una commozione che ben ne ha mostrato la fatica, il costo, la necessità e la verità. Da tempo, per lo meno nel mondo occidentale, «sacrificio» non ha più l’accezione legata alla sua etimologia di impronta religiosa: «sacrum facere», «rendere sacro» un oggetto o una realtà spostandola dalla dimensione profana a quella appartenente al divino attraverso un rito o un insieme di gesti che arrivavano fino all’offerta - «sacrificale», appunto - di una vittima per ingraziarsi gli dèi o placarne l’ira. Il «capro espiatorio», così finemente analizzato anche nella sua dimensione fondativa di una cultura, ha lasciato il posto a «sacrifici» meno cruenti ma più quotidiani, legati comunque alla faticosa ricerca di una vita «migliore».

Così la mia generazione, cresciuta in un’epoca ancora di cristianità, è stata educata umanamente e cristianamente a «fare sacrifici»: privarci di alcune cose, rinunciare ad altre, accontentarci di quello che c’era... Del resto, negli anni dell’immediato dopoguerra, in cui molti vivevano in condizione di fame e miseria, «fare sacrifici» per molti non era un’opzione, ma la condizione toccata loro in sorte. Ma quell’invito ossessionante alla privazione, sovente svuotato di ogni motivazione e slegato dalla possibilità di vederne i frutti, creò di fatto una reazione di rigetto: nessuno volle più sentir parlare di sacrifici, né tanto meno continuare a farli, soprattutto nell’ora del boom economico.

In questo senso la mia generazione ha una responsabilità nella mancata trasmissione alle generazioni successive del valore del sacrificio. E oggi, incapaci come siamo stati di comunicare la valenza umanizzante dello sforzo e della rinuncia, ci ritroviamo tutti in una cultura impossibilitata a intravedere un orizzonte di bene comune e di speranza, abbiamo assistito al rarefarsi di persone pronte a dedicare tempo, mezzi, energie, beni per una maggiore umanizzazione, per la crescita di una convivenza pacifica, per l’affermazione di valori e principi degni dell’uomo o, ancor più semplicemente, per preparare un futuro migliore per i propri figli. Mancanza davvero grave, perché il sacrificio è una cosa seria: significa privarsi di un bene, astenersi da una possibilità in vista di un bene più grande che, se è tale, riguarda tutti, concerne la communitas e non il mio interesse personale. Spendere le proprie energie, fino al gesto estremo di sacrificare la vita stessa è possibile e doveroso se con quel sacrificio si ottiene giustizia, pace, libertà: quanti uomini e donne nella storia hanno sacrificato tempo, risorse, affetti per la realizzazione di ideali e per sconfiggere l’ingiustizia a beneficio di tutti.

Ma riscoprire il significato fecondo del sacrificio richiede un discernimento su azioni e comportamenti che da tempo abbiamo rinunciato a esercitare, assumendo senza alcuna criticità quello che il consumo, il mercato e la propaganda ci presentavano come stile di vita «normale». Così non sappiamo più distinguere tra necessario e superfluo, né riusciamo a mettere ordine nel nostro universo mentale e comportamentale tra bisogni, desideri, voglie, sogni e capricci. Si è come smarrita ogni scala di priorità: tutto pare sullo stesso piano, perché tutto attiene in positivo o in negativo al suo impatto sulle nostre sensazioni immediate. Noi abbiamo smarrito il senso della communitas tra contemporanei come di quella che ci lega con responsabilità alle generazioni future: vogliamo leggere, definire, vivere e consumare il nostro orizzonte limitandolo a un «io» narcisistico e prepotente o a un «noi» ristretto e fissato dal nostro vantaggio e non dalla realtà della polis.

Credo che questo smarrimento culturale ed etico abbia profondamente a che fare con l’affievolirsi del «senso» attribuibile ai «sacrifici»: se non ci sono principi condivisi, se non c’è un fine superiore alla momentanea soddisfazione personale, se non si percepisce alcun legame tra generazioni né responsabilità verso il futuro della collettività, sarà ben difficile rinunciare spontaneamente a qualcosa o aderire con convinzione a una rinuncia imposta dalle circostanze avverse. Se manca un orizzonte condiviso, se ogni atteggiamento è eticamente indifferente, se pretendiamo come diritto tutto ciò che è tecnicamente o economicamente possibile, allora ci troveremo impotenti di fronte a ogni avversità, le subiremo come catastrofi ineluttabili e cercheremo di sottrarci ad esse senza gli altri o addirittura contro di loro. Il sacrificio amputato della solidarietà, la rinuncia svuotata della speranza, il prezzo da pagare dissociato dal valore del bene da acquisire diventano insopportabili: nella communitas, infatti, il sacrificio è il debito che io liberamente assumo verso l'altro, altrimenti la communitas stessa cessa di esistere.

Solo un ideale altro e alto, la speranza di contribuire a un mondo migliore di quello che abbiamo conosciuto, la preoccupazione per il benessere di chi verrà dopo di noi, la solidarietà con chi, vicino o lontano da noi, non può accedere a beni essenziali che noi non ci rendiamo nemmeno più conto di possedere può spingerci non solo ad accettare i sacrifici ma ad affrontarli con consapevolezza e convinzione: quanti tra coloro che ci hanno preceduto avrebbero affrontato le difficoltà della vita se non avessero sperato di offrirci una condizione migliore? Perché il risultato del sacrificio non è il poterne fare finalmente a meno, bensì l’affermare con la propria vita quotidiana che un altro mondo è possibile, che l’uomo non è nemico dell’uomo e che vi sono principi di equità, di giustizia, di pace, di solidarietà che vale la pena vivere a qualunque prezzo: in fondo, il valore di ogni nostro desiderio è il prezzo che siamo disposti a pagare per raggiungerlo.

Davvero il sacrificio è iscritto nell’amore, perché nelle storie d’amore sempre accade che per il bene dell’altro io devo rinunciare a qualcosa che è solo a mio vantaggio, secondo il mio desiderio o capriccio. Allora, anche se il nostro faticoso lavorare il campo della vita non dovesse essere coronato dai frutti, ci resterà almeno la soddisfazione di aver dissodato il terreno perché altri, cui siamo legati dalla comune umanità, potranno trovarvi nutrimento e gioia.
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